Steven Blush – American Punk Hardcore, una storia tribale (2007)

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E’ da anni che assistiamo alla riscoperta di momenti musicali fulgidamente pregnanti del passato più o meno recente.

Questo a volte avviene attraverso la riscoperta di artisti e di forme musicali da alcuni ritenuti minori sia da parte della “critica” che da chi prova a far musica oggi.

Spesso e volentieri ho letto, in particolare sul web ma anche in libreria, resoconti su una particolare scena scritti dal giornalista taldeitali che in molti casi non era neanche nato nel periodo del quale racconta oppure anche se contemporaneo dalla stessa se ne teneva ben lontano a distanza di sicurezza. Questo anche dovuto ad una certa ritrosia e pudore dei protagonisti che ben sanno quanto sia facile cadere nella trappola dell’autocelebrazione e di come il tempo annacqui e addolcisca i ricordi.

Non è il caso di Steven Blush e del suo American Punk Hardcore: una storia tribale (American Hardcore: A Tribal History in originale) uscito negli States nel 2001 e propostoci in italiano dalle edizioni Shake nel 2007. Lo stesso libro è poi diventato un film distribuito dalla Sony nella versione in dvd, alla faccia del DIY e delle idee che l’HC portava avanti; ma non c’è da stupirsi visto che, come Blush stesso ci rende edotti in questo suo libro, alcuni ex componenti dei Dead Kennedys hanno fatto causa e vinto la stessa contro Jello Biafra e l’Alternative Tentacles per dei compensi non recepiti (della serie: nessuno è senza peccato + il dollaro prima di tutto).

Steven Blush ha vissuto da protagonista la scena hardcore amerigana, in particolare come promoter e organizzatore di concerti sulla scena di Washington DC. In American Punk Hardcore ci racconta attraverso “interviste” fatte ai protagonisti dell’epoca sopravvissuti e attraverso i ricordi delle sue esperienze l’epopea di un movimento musicale che ebbe una vita sostanzialmente breve, circa 7 anni cioè dal 1980 al 1986, ma che ha avuto e ha ancor oggi un’influenza su tutta la musica energica prodotta da quel momento in poi.

Uno dei meriti di Blush è di aver cercato di dar spazio a tutti i protagonisti anche a quelli più misconosciuti. E’ ovvio che la parte del leone la fanno le grandi band seminali come Bad Brains, Black Flag e Minor Threat (o dovremmo dire Ian MacKaye? 😀 ). Altro merito, o demerito dipende dai punti di vista, è quello di aver dato spazio alle voci in certi casi autocelebrative dei protagonisti senza alcuna censura e controbilanciandole col proprio, che in più di un caso diventa estremamente tagliente e senza mezze misure (e forse in più di un caso legato a rancori personali, però decisamente hardcore 😀 ).

Il libro è senza dubbio molto interessante, a me è piaciuto molto anche se mi ha ribadito ancor di più che la percezione che avevamo all’epoca della scena americana fosse molto idealizzata. Infatti nonostante più o meno tutti i kids statunitensi prendessero spunto dall’anthem If The Kids Are United degli Sham 69 la realtà poi nei fatti fosse molto diversa (della serie: predicare bene ma razzolare male); comunque di spunti di riflessione American Punk Hardcore ne offre davvero moltissimi. Tutto ciò mi ha confermato ancora una volta di quanto sia stata speciale la scena italiana che, pur con tutti i limiti intrinsechi e le contraddizioni del nostro paese e quindi di noi stessi, seppe essere più coesa e più coerente, inoltre pur guardando oltremanica e oltreoceano riuscì ad essere musicalmente originale (nei limiti del genere ovvio) e a guadagnarsi stima e fans in tutto il mondo; eppure nonostante ciò morì più o meno contemporaneamente a quella statunitense. Forse proprio per questo mi è piaciuta tantissimo la postfazione scritta dai Kina, storica band di Aosta, che mi fa desiderare che il libro dedicato all’hardcore italiano che stanno scrivendo i ragazzi di LoveHate80 esca al più presto. La cosa che mi stupisce e come gran parte di questa memoria sia andata perduta, per cui è più facile che una giovine band odierna si ispiri per esempio ai Minor Threat rispetto agli altrettanto validi I Refuse It (anche se è decisamente più facile che si ispiri ai Green Day o ai Sum41). Però una idea del perché ce l’avrei: le band inglesi e statunitensi, o meglio quelle di cui abbiamo maggior memoria, ebbero la fortuna che a casa loro era decisamente più facile e meno costoso produrre dischi nei vari formati in vinile rispetto all’Italia pur auto-producendosi, la scena italiana invece andava avanti più che altro con le cassette autoprodotte (io stesso ne produssi tre insieme a Marcello, vedi La Redazione) e queste hanno avuto sempre il limite di una vita fisica minore, ma anche un fascino minore diciamocela tutta, rispetto al vinile; per fortuna in questi ultimi anni una certa parte di recupero e ristampa è stata fatta.

Un appunto va fatto alla Shake per la scelta di cambiare la foto originale di copertina, aver messo una foto più stilosa di Henry Rollins al posto di quella decisamente più cruda di Danny Spira dei Wasted Youth sa fin troppo di marketing. Altro appunto gli va fatto per non aver reso più comprensibile quando a parlare è l’autore, bastava mettere semplicemente un font diverso.

In conclusione un buon libro American Punk Hardcore che consiglio vivamente salvo un’unica avvertenza: non prendete sempre per oro colato tutto ciò che troverete scritto (qualche errore, spero di stompa, c’è, oltre al discorso autoincensamento e sassolini nelle scarpe) e i più giovani non si offendano per alcune delle considerazioni finali (molte sono, ahinoi, fin troppo veritiere) come hanno fatto, ad esempio, i Weekend Nachos 😀 .

 

 

 

 

Mario (maggio 2010)

 

 

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