Di quella volta in cui Eddie Vedder mi regalò il suo “tambourine”

Le voci erano insistenti: tour europeo in arrivo, tre probabili date in Italia, una sicuramente al Rock in Roma. Insomma sembrava ormai certo: i Pearl Jam sarebbero tornati nel nostro paese nel 2016. La gioia era tanta, ma mancava sempre l’ufficialità dell’annuncio. Qualche settimana dopo ecco la newsletter del famoso Ten Club: Pearl Jam North American Tour. Ma come, e l’Italia? E Roma? Sono bastate poche righe per farci tornare tutti con i piedi a terra, coscienti che non avremmo rivisto i nostri “zozzoni”. Una volta uscite le date però, una città tra le tante mi era familiare: Toronto. E’ dove mio fratello vive ormai da un po’ di anni e dove io sono stata in vacanza qualche estate fa. L’idea di poter riabbracciare Simone e di poter vedere il mio gruppo preferito ha subito preso il sopravvento. E quindi di corsa su Ticketmaster nel tentativo di prendere un biglietto. Ma niente, sistema in tilt e ingressi terminati. Fortunatamente poi ho trovato una ragazza su un forum che mi ha venduto il suo 101 ma, poco dopo, i PJ tramite il loro sito hanno annunciato la seconda data sempre a Toronto. Il biglietto era ancora più difficile da trovare e quindi sono partita per il Canada, da Formia,  con in tasca solo un posto riservato per il primo concerto. Una volta a Toronto, tra una passeggiata e l’altra, mi è capitato di leggere su Instagram un post: “Paul Mercs Concerts vi da la possibilità di vincere due bi2glietti per le date sold out dei Pearl Jam.” La premessa è che io non ho mai vinto nulla, sono solitamente sfortunata con contest e lotterie varie, quindi in un primo momento ho quasi scartato l’idea di parteciparvi. Ma poi leggendo bene mi sono incuriosita: ogni giorno, in una location segreta, ci sarebbe stato un artista a riprodurre la cover di un album. Chiedevano di cercare il luogo e di scattarsi una foto con l’opera terminata. Album dopo album, strada dopo strada (perdendomi ogni tanto perché insomma Toronto non è proprio piccola e io con Google Maps non sono il massimo), sono riuscita a trovare i cinque lavori. Senza troppo pensarci sono tornata a casa, felice di aver conosciuto tanti appassionati della mia stessa musica come Pina, figlia di italiani emigrati, con la quale ho passato interi pomeriggi a parlare di pasta e pizza. Ma ormai il 10 maggio era alle porte, mancava pochissimo quando ho visto un messaggio sul mio account di Instagram: “Thanks for taking part in our Pearl Jam contest! You have been chosen as one of our lucky Winners”. Avevo appena vinto due biglietti per il secondo concerto: la felicità era incontenibile, ma dovevo correre all’Air Canada Center, al mio famoso posto 101. Ottima visibilità, anche se un po’ lontana dal palco non importava: Eddie & co. erano in formissima e ci hanno regalato due ore e mezza di musica live. La seconda data invece, a causa della partita dei Raptors era stata spostata dall’11 al 12 maggio, quindi avevo un giorno di “riposo” prima del secondo ed ultimo concerto. Ho pensato così di scrivere su una bandiera italiana che ero arrivata da Roma, aggiungendo anche che mi sarebbe piaciuto ricevere il tamburello di Eddie. “Ma figuriamoci se mi calcola, sarò lontanissima e non mi vedrà mai”, mi son detta. In ogni caso il giorno dopo mi sono recata al botteghino, dove una busta con il mio nome sopra conteneva i due biglietti vinti: non sapevo dove ci avrebbero fatto sedere, che sezione o posti ci avrebbero assegnato. Ma una volta arrivata dentro con mio fratello, ho capito: eravamo a sei poltrone dal palco, lato mixer. Praticamente vedevo tutto: dall’ingresso del gruppo agli ospiti speciali ( tra cui Gary Lee dei Rush). Inutile dirvi che è stato probabilmente il miglior live al quale ho assistito: si sono susseguite tra le altre Crazy Mary e Alone, brani 3non facili da ascoltare live. Per tutta la durata del concerto ho alzato di tanto in tanto il mio tricolore, Eddie spesso ha guardato verso di noi e ad un certo punto mi ha sorriso indicandomi e accennando un veloce ciao. Il tempo poi è passato velocemente, fino ad arrivare agli ultimi due brani. Il primo, una cover dei The Who (visti live nello stesso palazzetto qualche settimana prima) – Baba o’ Riley. Che meraviglia, ho pensato. Ma il mio momento doveva ancora arrivare: qualche secondo dopo ho visto Eddie venire verso di noi e lanciare il primo tamburello nella mia direzione. Ma due tipi ben più grossi, dietro di me, l’hanno preso picchiandosi, e alla fine hanno pure rotto il prezioso cimelio. “Cavolo, ne ha già lanciato uno e non l’ho preso. Non succederà di nuovo”, mi sono detta. Nel frattempo, presa un po’ dal panico e dal fomento, ho sceso i sei scalini che mi dividevano dal palco lasciando i due litiganti alle mie spalle e tra un “please, please me” e uno sguardo ai secondi che passavano ho iniziato a perdere un po’ le speranze. Ed invece, in quel momento, ho visto Eddie che mi veniva incontro. Sudatissimo ma sorridente mi ha chiamato indicandomi: “You!”, “ME?!?”, “Yeah, you. It’s yours!” e subito dopo ha chiamato l’enorme bodyguard sotto di me dicendogli “è il suo”. Ovviamente chi ha visto la scena si è affrettato a scendere giù: avevo venti persone alle mie spalle, probabilmente prontissimi a precipitarsi, ma Mr Vedder con un gesto gli ha fatto capire di togliersi e in un attimo, con un lancio perfetto, il suo tamburello era nelle mie mani. Il tempo di mandargli un bacio, di dirgli dieci volte grazie e sono risalita al mio posto. Tutti i presenti sugli spalti mi hanno abbracciato “Good job, you did it!” mi continuavano a dire. Io volevo solo tornare alla mia fila 7, posto 1 e trovare mio fratello. Da quel momento in poi ho iniziato a piangere, in uno stato quasi di shock, tanto che ho quasi perso la chiusura del concerto. Ero in un mondo mio, pensavo a tutti i momenti in cui ho preso le cuffie o messo un cd nello stereo per farmi confortare da quella voce. Per farmi sentire dire che nonostante le malattie, le persone care che mi hanno lasciato all’improvviso “i’m still alive”. Che nonostante tutto “non importa quanto freddo sia un inverno, ci sarà sempre una primavera ad aspettarmi.”

13243839_10154209179764207_4607619038729776780_oMi piacerebbe potervi descrivere l’esatta sensazione dei suoi occhi che guardavano i miei senza passare per una di quelle fan quindicenni isteriche. Come mi piacerebbe potervi far capire cosa ha significato per me quel momento dopo tutti questi anni di autostrade, treni, aerei, alberghi per seguirli live, con non pochi sacrifici soprattutto economici. Su ventimila persone presenti, ha scelto me. Poco dopo poi ha scelto Andrea, arrivato da Milano ed anche lui con il tricolore, per donargli la sua bottiglia di Barolo. Siamo tornati entrambi in Italia, da piccoli vincitori di una data sold out dall’altra parte del mondo. Io con il mio tamburello e lui con la sua bottiglia. Subito dopo avergliela regalata Eddie ha pronunciato pochissime parole al mio amico: “see you next tour”, gli ha detto. Ci rivedremo di sicuro, consapevoli che probabilmente una notte del genere così carica di emozioni non ci capiterà più. Hail hail, to the lucky ones!

 

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